MEMORIE DI UN ADDETTO MILITARE in Libano (1987-1990)

A puntate

(Di Lucio Martinelli)

PRIMA PUNTATA

 

1.1987. L’ARRIVO IN LIBANO

In quella mattina di settembre non era possibile credere che il golfo di Jounieh, illuminato dal sole appena spuntato dietro la vetta del monte Sannine, facesse parte di un paese dilaniato da dodici anni di terribile conflittualità interna. Era questo il pensiero spontaneo che veniva alla mente ammirando lo spettacolo che il quel momento offriva la natura dal ponte del Sunny Boat, uno dei due traghetti che collegavano il Libano a Cipro e al resto del mondo. Gli arabi chiamano questa zona dell’Asia Minore al-Mashrek, il Levante, la terra dove nasce il sole, in antitesi con al Maghrib((Distinto in: Maghrib al-Awsat (odierna Algeria) e Maghrib al-‘Aqsā (attuale Marocco), cioè l’occidente estremo.)), la terra dove tramonta il sole.

Il mio viaggio era finito. Ero partito da Roma il giorno prima. Due aerei mi avevano portato in Grecia e poi a Larnaca (Cipro), in tempo per compiere la traversata notturna. Quasi 24 ore di viaggio rispetto alle tre ore di volo da Roma a Beyrouth in condizioni normali. L’aeroporto internazionale (AIB), purtroppo era inagibile da anni a causa della guerra e dei danni subiti. Durante la notte non ero riuscito a chiudere occhio. Avevo rivissuto tutti i principali avvenimenti dopo la mia nomina quale Addetto Militare, Navale e Aeronautico presso l’Ambasciata d’Italia in Libano.

Avevo chiesto io di essere assegnato a Beyrouth. Il rischio era alto, e nessuno ci voleva andare, al contrario di Washington, Parigi, Madrid, Vienna Bonn, Mosca, Londra, Pechino, sedi diplomatiche molto ambite, pacifiche, visitate spesso da personaggi importanti (Ministri, politici, Capi di Stato Maggiore, ecc.) che, se gradivano l’accoglienza ricevuta dall’Addetto Militare sul posto, appena rientrati in Patria, ricambiavano con apprezzamenti e, soprattutto, con rapporti e valutazioni favorevoli ai fini della carriera. Chi avrebbe corso dei seri pericoli per venirmi a trovare in un paese in guerra?

Nelle ore di veglia mi ero chiesto se mi ritenevo all’altezza di un compito così impegnativo e se sarei stato capace di affrontare le responsabilità e gli azzardi della mia missione. Dallo scoppio della guerra (1975) a quel momento, più di cento diplomatici, civili e militari, erano stati uccisi o sequestrati. Sapevo bene che il rosso “passaporto diplomatico” non mi avrebbe dato garanzia di immunità in un paese in cui non esistevano regole. Ciononostante, ero io ad avere chiesto il Libano e pertanto dovevo essere consapevole della mia scelta ed essere pronto a qualsiasi conseguenza. Comunque ero tranquillo, anche se i miei amici mi avevano dato del “pazzo” quando erano venuti a conoscenza della mia intenzione di partire per una sede così pericolosa. Il mio stesso Capo aveva molto esitato nell’approvare e avallare la mia domanda.

Il comprensibile senso di incertezza nell’affrontare un mondo sconosciuto, era però mitigato, al momento dell’attracco, dalla bellezza di quell’angolo di Libano che, al contrario, dava un senso di pace e di serenità. Non vedevo nessun segno apparente di distruzione: solo moderni palazzi, alcuni in costruzione, dei lussuosi complessi balneari in riva al mare e ville di varie dimensioni ovunque. Ciò che colpiva era piuttosto la mancanza di un piano regolatore e una ostentazione del lusso. Nessun edificio mostrava delle ferite di guerra; ma non avevo ancora visto le immense distruzioni di Beyrouth! L’indizio di uno stato di tensione lo ricevevi però allo sbarco. La banchina, cinta di filo spinato, era piena di gente armata, in uniforme e in abiti civili. Soldati, miliziani, poliziotti delle FSI (Forze di Sicurezza Interna), doganieri, tutti armati fino ai denti, controllavano le operazioni di sbarco, magari ripetendo le stesse verifiche. Non sapevo ancora che tutti i libanesi, comprese le donne, erano armati! L’arma, oltre ad essere una necessità psicologica, era anche uno “status symbol”, come il rolex d’oro o la vettura americana con non più di quattro numeri nella targa. Tanto più questi oggetti erano sofisticati, tanto più il proprietario era importante e veniva rispettato. Le scimitarre, i pugnali arabescati che un tempo i libanesi portavano nella fascia alla cintura, visibili in foto e stampe fino alla fine della prima GM, erano stati sostituiti con pistole di tutti i tipi, da portare sotto la giacca o nella borsetta. Io stesso, durante tutto il mio mandato, non mi sono mai separato da una grossa automatica a 16 colpi e da un micidiale fucile a pompa. Non avere una ricetrasmittente portatile collegata con l’Ambasciata e un’arma addosso era come sentirsi nudo tra la gente. Ti davano un “illusorio” senso di sicurezza, di cui non potevi però fare a meno.

Una vettura blindata con targa diplomatica e due carabinieri di scorta, mi attendevano sul molo per accompagnarmi alla mia abitazione

L’appartamento che avevo affittato nel quartiere di Kaslik era grande e luminoso, al sesto piano di un bel palazzo moderno. Dai balconi si godeva la visuale di almeno un paio di chilometri di costa e il mare non distava più di 300 metri in linea d’aria. Era vicino all’Ambasciata e all’autostrada, l’asse stradale longitudinale più importante del Libano. La sede diplomatica, all’inizio del 1985, si era trasferita da Beyrouth a Zouk Mkayel, un sobborgo di Jounieh, a circa 30 chilometri al di là della “linea verde”, il confine di fatto che da anni divideva la città in due zone, quella cristiana e quella musulmana. La nuova Ambasciata occupava due piani di un bel palazzo mentre il terzo era interamente preso dal mio Ufficio, grande, attrezzato e confortevole.

NEL MIO UFFICIO

Il mio biglietto da visita in arabo

 

Avevo alle dipendenze un Segretario e due carabinieri per la vigilanza e la sicurezza. Molto presto avrei apprezzato il coraggio e la capacità di questi collaboratori, con i quali avrei condiviso la vita di ogni giorno.

Dopo la presentazione all’Ambasciatore e al personale della Cancelleria, i dieci giorni di affiancamento con il mio predecessore furono dedicati, in gran parte, alle visite protocollari alle altre Ambasciate di Paesi amici e alleati ed a incontri con personaggi del mondo politico e militare libanese. Mi ero anche recato in elicottero a Naqoura, ai confini con Israele, per incontrare e salutare i militari italiani in forza allo squadrone elicotteri inquadrato nell’UNIFIL.

Solo il Ministro della Difesa, Adel Oseirane si era scusato per non avermi incontrato per un saluto di benvenuto. Era un musulmano sciita che viveva nella parte ovest della capitale. Raramente si spostava a Yarzé, dove era ubicato il Ministero della Difesa, nella parte cristiana di Beyrouth. Erano molti mesi che non attraversava la “linea verde”.

A Yarzé mi ero presentato al Comandante dell’Esercito, il Gen. Michèl Aoun, un cristiano maronita dallo sguardo intelligente e penetrante che mi aveva favorevolmente impressionato. Molti Ufficiali libanesi del suo staff mi avevano accolto con viva cordialità nel giro di orientamento tra gli Uffici del Ministero, un moderno edificio posto su una collina che dominava la città e l’aeroporto internazionale con le sue piste deserte. Avevo incontrato anche il Col. Simon Kassis, il potente Capo del Deuxième Bureau (l’Ufficio Informazioni dell’Esercito), un fedelissimo del Presidente della Repubblica Amine Gemayel. Quella però è stata anche l’ultima volta che l’ho visto.

 

Visita allo squadrone elicotteri di Naqoura

Nel ricevimento per il saluto alle autorità politiche, religiose e militari del Paese, tenuto qualche giorno dopo il mio arrivo nel prestigioso circolo per VIP della ATCL (Automobile et Touring Club du Liban), avevo modo di completare la conoscenza anche delle altre “persone che contano”, ovvero i Patriarchi e i Capi delle sedici comunità religiose libanesi, undici cristiane e cinque musulmane((Comunità Cristiane: maronita, greco cattolica, greco ortodossa, armena cattolica, armeno ortodossa, siriaca cattolica, siriaca ortodossa, caldei, nestoriani, protestanti. Comunità musulmane: sunniti, sciiti duodecimani, sciiti ismailiti, drusi, alaouiti.)).

La cosa che più mi aveva colpito, fin dai primi giorni di questa nuova esperienza di vita, era la estrema cortesia e disponibilità dei libanesi che man mano incontravo. La stessa cosa non potevo dire del personale dell’Ambasciata che non aveva favorito in alcun modo il mio ambientamento. Il solo ostacolo di ordine burocratico-amministrativo arrivava dalla dogana del porto di Jounieh gestita dalle Forze Libanesi, una potente organizzazione politico-militare che si era sostituita allo Stato nella percezione dei diritti portuali. Per lo sdoganamento del container con le mie masserizie proveniente dall’Italia pretendevano una tassa molto alta. Le mie legittime rimostranze, connesse al mio status di agente diplomatico, non erano prese in considerazione. Dovevo pagare e il container mi veniva consegnato dopo oltre una settimana. Qualche tempo dopo, dalla dirigenza delle Forze Libanesi mi arrivava una lettera formale di scuse per l’accaduto, ma….. nessun rimborso della tassa pagata illegalmente.

 

2.LA PRESA DI CONTATTO

La vera presa di contatto con la realtà libanese avveniva nel corso di due occasioni profondamente diverse tra loro.

La prima era il funerale di un Ufficiale e di un Sottufficiale della Gendarmeria presso l’Ambasciata di Francia. I due erano stati uccisi con un colpo in testa e un altro Sottufficiale era stato gravemente ferito, mentre si trovavano in un supermercato nel quartiere di Dora, nella zona cristiana. I terroristi, provenienti dalla zona musulmana, avevano fatto perdere le proprie tracce. Mentre osservavo le due bare avvolte nel tricolore francese, notavo la rabbia e il dolore dei presenti. Per quale oscuro disegno questi uomini erano stati trucidati e a chi poteva giovare la loro morte, mi chiedevo, e perché il Paese dove la tolleranza e la civiltà erano di esempio in tutto il Medio Oriente, si era trasformato in un luogo dove l’umanità, la pietà e il rispetto non esistevano più? Non avevo paura di fare la loro stessa fine: era il rischio che avevo accettato nel momento in cui avevo presentato la mia domanda per la sede libanese. E comunque era la fine da augurarsi piuttosto che rimanere vittima di un sequestro. Non bastano il coraggio e la volontà di sopravvivenza per resistere a una crudele detenzione di mesi, anni in condizioni così disumane che la tua dignità resta irrimediabilmente offesa, ancor più delle torture e delle privazioni corporali. In quel momento, gli ostaggi occidentali nelle mani delle organizzazioni estremiste islamiche erano alcune decine.

Al rientro dal commovente rito funebre, ricevevo anche il “battesimo del fuoco”. Nel bel mezzo di un traffico che poteva far definire “scorrevole” quello di Roma e Napoli messi assieme, cominciarono a cadere, a pochi metri dalla mia auto, diversi colpi di mortaio da 120 mm, seminando morte e distruzioni((Erano state tirate, come seppi dopo, dalla milizia del PSP, il partito armato druso di Walid Joumblatt.)).

E’ impossibile descrivere quello che accadde. La gente in preda al panico abbandonava le auto, o cercava di tornare indietro a retromarcia, contromano, bloccando completamente il traffico e provocando numerosi incidenti. E’ stata questa la prima occasione per verificare il mio sangue freddo difronte a un pericolo reale e molto vicino e, nello stesso tempo, per verificare l’abilità, la calma e la conoscenza della rete stradale da parte del carabiniere che mi aveva accompagnato. Senza far molta attenzione a dove metteva le ruote della pesante vettura blindata, riusciva ad evitare le altre auto accartocciate e a invertire la marcia rientrando in Ambasciata attraverso strade di montagna, all’epoca a me completamente sconosciute. La sua pluriennale esperienza del posto aveva salvato entrambi.

Festa delle FFAA italiane. Brindo con L’Ambasciatore e il Comandante dell’Esercito libanese, il Gen. Aoun.

La seconda occasione era la Festa delle Forze Armate italiane, la cui celebrazione, per ragioni protocollari, era stata spostata dal quattro al sei di novembre. Nella residenza dell’Ambasciatore, gentilmente messa a mia disposizione, avevo fatto preparare un ricevimento dalla “Cigale”, la più nota organizzazione di catering libanese. Il giorno della cerimonia, una pioggia torrenziale mi faceva dubitare del suo successo. Invece, oltre trecento invitati sfidavano il maltempo e le strade rese quasi impraticabili, per venire a conoscere il nuovo Addetto Militare Navale e Aeronautico italiano. In poche ore, il mondo politico, religioso e militare libanese intervenuto, con simpatia e calore mi attestava di aver “accettato la mia intrusione nel loro Paese.

Da questo momento dovevo cavarmela da solo.

 

La realtà libanese s’impossessava completamente della mia vita.

Essere testimone oculare di un fenomeno militarmente così complesso e politicamente indecifrabile, richiedeva il massimo dispendio di energie fisiche e mentali. Dovevo continuamente raccogliere e valutare tutte le informazioni acquisite sulla caotica situazione per procedere poi alla loro analisi e al confronto con le altre informazioni. La colletta delle notizie si faceva all’esterno, sul terreno, molto spesso in aree insicure e in zone che potevano improvvisamente diventare teatro di scontri improvvisi e imprevedibili. Tutto ciò era necessario e indispensabile, come mi aveva insegnato il prof. Franco Casadio((Titolare della cattedra di Strategia Globale alla Scuola di Guerra e mio insegnante. Direttore del Centro Studi Strategici, Consulente governativo di Strategia politica. Deceduto durante il mio mandato in Libano.)), per individuare l’attività dei principali “soggetti protagonisti”, interni ed esterni, responsabili di uno stato conflittuale che durava da dodici anni. Bisognava ricostruire, partendo dal passato, le loro implicazioni nel presente per cercare di prevedere quelle nel futuro. Per capire come stavano le cose era necessario trovare il legame tra causa ed effetto, soprattutto attraverso l’approfondimento della mentalità e delle usanze locali e regionali. Questa è una esperienza che si può fare soltanto attraverso il contatto con persone e situazioni molto diverse tra loro. Sulla “carta” il Libano non aveva segreti per me. Sapevo le sue origini, la sua storia, come si era reso indipendente, quale era stata la sua evoluzione politica, sociale, culturale ed economica. Per la conformazione geografica e per le alte montagne con ghiacciai perenni, era chiamato la “Svizzera del Medio Oriente”. Conoscevo anche molti “perché” del passato che l’avevano sprofondato in una crisi conflittuale apparentemente insanabile. Ora i “soggetti protagonisti” potevo vederli operare dal vivo e capire la situazione del momento. Volevo incontrare i politici che si spartivano il Libano: dal Presidente Gemayel ai capi dei partiti e delle milizie armate, quali ad esempio, Berri (Amal), Hoss (Primo Ministro) Geagea (capo delle Forze Libanesi) Joumblatt (capo della comunità drusa e della milizia del partito PSP. Conoscevo anche i nomi dei responsabili della catastrofica situazione economica, della svalutazione della lira libanese, un tempo una delle monete più forti del mondo, degli eccidi di tanta gente innocente. Non avrei però mai potuto incontrare coloro che detenevano il potere assoluto, cioè i veri padroni del Libano: il leader siriano Hafez el-Assad e quello iraniano, l’ayatollah Sayyd Rouhollah Khomeiny.

Assad, oltre al suo Mukhabarat (servizio segreto militare) e alle truppe che occupavano il nord del Paese e metà della capitale, si serviva di Nabih Berri, il capo di Amal, come braccio armato locale, unitamente ad una pletora di politici fedelissimi quali il Primo Ministro Selim Hoss e l’ex Presidente Soliman Frangié. Khomeiny utilizzava un buon numero di Pasdaran fatti arrivare clandestinamente, dei Mullah e dei miliziani dello Hizbollah, magistralmente indottrinati e diretti dallo sceicco Mohamed Fadlallah.

Anche Israele manteneva legami in Libano con la milizia cristiana Le Forze Libanesi, guidate dal maronita Samir Geagea, il quale, a sua volta manteneva stretti contatti con il leader iracheno Saddm Husseini, acerrimo nemico di Assad, che inviava alla milizia ingenti quantitativi di armi anche pesanti. E, proposito di armi, ad eccezione dell’esercito regolare libanese che aveva un armamento prevalentemente statunitense, tutti sfoggiavano armi ed equipaggiamenti sovietici. A questi “potenti” appena nominati, si affiancava una schiera di personaggi minori che, agli occhi del mondo e delle diplomazie, erano i titolari legittimi di una autorità riconosciuta ma inesistente.

Una delle realtà più scioccanti per un neofita era la situazione della capitale divisa in due da un confine invisibile, ma reale, che separava l’est cristiano dall’ovest musulmano, comunicanti tra loro attraverso uno o due passaggi, sorvegliatissimi e estremamente pericolosi. Nel settore cristiano, la maggior parte dei danni prodotti dalla guerra erano stati riparati, molti gli edifici appena ricostruiti o in costruzione. Nella zona ovest della capitale, le immani distruzioni ti colpivano come un pugno nello stomaco dandoti un profondo senso di angoscia. Non c’era costruzione, grande o piccola, che non fosse una testimonianza di morte e di miseria. I danni irreparabili, specie delle infrastrutture alberghiere, portuali e sportive, erano stati causati dai bombardamenti dell’aviazione israeliana, dai bombardamenti terrestri e navali durante l’invasione del 1982, che avevano provocato la morte di 19.000 persone, la maggior parte civili innocenti e distrutto una delle più belle città del mondo. Osservando queste due diverse situazioni, una di relativo benessere e una, la musulmana, di profondo degrado, come si poteva sperare che queste due distinte realtà sociali, strumentalizzate dall’interno e dall’esterno, potessero ritrovare, da sole, la preesistente intesa e cooperazione?

Il superamento della “linea verde”, la frontiera tra due ideologie politico-religiose, era una impresa ardua. Si correva il rischio di essere uccisi da un cecchino o da una esplosione, sequestrati a scopo di riscatto, derubati o quantomeno sottoposti ad estenuanti chek point da parte di tutti, soldati siriani, miliziani di Amal o del PSP druso che creavano code interminabili di automezzi di ogni tipo. Un’altra cosa che colpiva l’occhio era l’assenza quasi totale di una circolazione pedonale. Tutti cercavano di effettuare i loro spostamenti nel modo più rapido possibile, aumentando i disagi della circolazione, resa ancora più caotica dai punti di obbligato passaggio e dallo stato precario della rete stradale. La circolazione da nord a sud e in senso contrario, si svolgeva soprattutto sull’asse autostradale che, ovviamente, era il più bersagliato dal tiro delle artiglierie nei frequenti momenti di tensione.

Il Libano, nato come nazione indipendente nell’area ove era sorta la civiltà fenicia, era diventato, da culla della cultura e del progresso, il paese ideatore, costruttore ed esportatore delle autobomba, delle cariche esplosive per eliminare gli avversari politici, delle cinture esplosive per gli shahid, dei cecchini mercenari, anche di altre nazioni, e delle bande di sequestratori. Il Paese della tolleranza etnica e religiosa, si era trasformato in paese della completa intransigenza: cristiani contro cristiani, sunniti contro sciiti, sciiti contro sciiti per il controllo economico del sud, palestinesi riuniti in campi profughi o organizzati in bande armate, drusi contro tutti. Ogni organismo era diretto da menti che risiedevano fuori del Libano: in Iran, in Siria e perfino in Libia. Tutti potevano poi contare sulle cospicue rimesse in valuta pregiata da parte di paesi, come l’Arabia Saudita, che avevano l’interesse economico nel destabilizzare un’area a ridosso di Israele, per compiacere gli arabi nella lotta contro gli ebrei e per restare “alleati strategici” della Unione Sovietica, la prima fornitrice di armi (insieme alla Cina), che testava su terreno di lotta libanese le novità in fatto di armamenti. Naturalmente il nemico comune numero uno erano gli Stati Uniti, i maggiori fornitori di armi di Israele.

L’essenza del mio lavoro consisteva nel capire i perché e i percome in questo caos di situazioni, molte delle quali indecifrabili, lavorando con obiettività sui fatti. L’ambiente nel quale mi ero volontariamente immerso non ammetteva esitazioni o perdite di tempo. Ogni ritardo era rischioso per la corretta interpretazione delle notizie e per l’incolumità mia, dei miei cari e dei miei collaboratori, Non era facile lavorare e ricercare le risposte sul terreno ai molteplici quesiti quando da ogni finestra, portone, individuo sospetto, auto che ti si affiancava durante un trasferimento, poteva venire una offesa diretta.

Il 1987 si chiudeva con il fallimento della politica interna e di tutti i tentativi internazionali di distensione e pacificazione. I cristiani si erano isolati sempre di più dai musulmani nella loro enclave di 850 km quadrati. L’artificiale frontiera, la “linea verde” che divideva la capitale e la sua periferia sud orientale, separava due mondi che sembrava non avessero più punti di contatto. Era il Presidente siriano Assad, il padrone di più della metà del Libano e delle coscienze dei suoi abitanti. Solo un piccolo stuolo di “irriducibili ottimisti”, in gran parte cristiani, credeva ancora nella possibilità di ritrovare una intesa tra i cittadini, se siriani, iraniani, libici e palestinesi fossero tornati a casa loro. E speravano che la diplomazia internazionale li aiutasse nel realizzare questo progetto.

Più penetravo gli ambienti politici e religiosi, più la parola “pace” era pronunciata in maniera diversa, così come quando si parlava di stanchezza fisica e morale dopo tanti anni di tensione e logoramento. Si aveva la sensazione che, in fondo in fondo, il benessere della popolazione non fosse la principale preoccupazione di chi aveva in mano il destino dei propri concittadini. Tutte le confessioni, cristiane o musulmane che fossero, traevano dei vantaggi economici dallo stato conflittuale. Anzi, per qualcuno era una fonte di arricchimento colossale. E, se in Libano le condizioni di vita fossero molto peggiorate, chi aveva accumulato delle fortune poteva sempre contare su un rifugio dorato in Francia, negli Stati Uniti, in Italia, Belgio Germania. Tutti i ricchi maroniti e sunniti che avevo incontrato, ad esempio, avevano appartamenti a Parigi o a Londra e ville in costa azzurra. Lo stesso capo della comunità drusa, Walid Joumblatt, aveva fatto degli investimenti in Sardegna, dove possedeva una lussuosa residenza.

Il lavoro era molto e la difficoltà maggiore era penetrare usi e costumi di gente che i nostri avi definivano “levantini”.

In novembre la sede diplomatica si trasferiva in un nuovo edificio, interamente occupato. Il mio Ufficio, più piccolo del precedente, era all’ultimo piano. Restava sempre aperta in Beyrouth ovest una parte della Cancelleria e dell’Istituto Culturale, nella sede tradizionale di Rue Makhidissi (quartiere di Hamra). Il mio Segretario rientrava in Italia, dopo tre anni, per raggiunti limiti di età e il suo sostituto diventava ben presto un ottimo collaboratore ed amico con il quale ho condiviso quelli che ho chiamato i tre anni d’inferno più belli della mia vita professionale.

(CONTINUA)