GRANDE ELAGUERRA !

COSA RESTA

CENT’ANNI DOPO

di Nunzio Seminara

 

Dire o scrivere “guerra” è sempre un richiamo nei dibattiti di qualsiasi tipo, per rappresentare “l’effetto che fa” in un confronto o meglio in uno scontro, nella politica, nello sport, nell’economia. Ovunque.

Figuriamoci quando si parla di pistolettate e baionette, spingarde e cannoni, bombe e bombarde, baionette e sciabole. Eccetera.

Persino nelle tenzoni amorose dei talami, coniugali o di strada. Diventa quasi una routine. Un modo di dire. E senza accorgercene la usiamo nel linguaggio di tutti i giorni-

Fino a quando la Storia ci dà appuntamento con la vera guerra, quella “guerreggiata”, con tutti i suoi effetti. Di combattimenti, di morti, di tragedie, di quello che oggi ci fa parlare dei fatti che avvengono, stavolta, nel mondo vicino a noi.

Anzi, nel nostro “mondo occidentale”, in Europa, sconquassato da attentati, a caso o studiati a tavolino, o improvvisati. I lutti a casa nostra. Le manifestazioni e il richiamo alle condivisioni. Tutti a dibattere e a preoccuparci. Pronti a commentare. A criticare. Sembra, a volta, che si parli della Storia già fatta, fino a dare alle previsioni una parvenza di realtà conclusa.

Oggi, commentiamo la Storia di domani.Chissà cosa diranno fra cent’anni le generazioni dopo di noi. Chissà cosa diranno di noi.

Proviamo ad immaginarlo pensando noi della Storia di ieri.

Cent’anni fa. In Europa. In Italia, nei confini dalle Alpi alle Isole.

Cosa ci viene in mente?

Pochi capitoli. Ad esempio, cosa ci parla di quella guerra, la Grande Guerra.Oggi, a mente fredda e con cruda tristezza, se ne parla ma non se ne sa molto. Fra i giovani, destinatari delle testimonianze, quasi niente. Se non del tutto niente.

Forse poche immagini, come manifesti,

Un ciclista, senza una gamba, un elmetto ed un piumetto:Enrico Toti.

 

Enrico Toti

 

Manca la stampella, quella che poi, chissà quanto tempo dopo la foto, la lanciò in un assalto. Ormai leggenda, verso “quel nemico, gridando.

La Storia dei libri scrive che gridò “Viva l’Italia!”, o “Savoia!”

O, dice la memoria popolare, verace e schietta, che forse mandò, o meglio li rimandò a quel paese “quei nemici,col suo vernacolare romanesco: e qui ci sarebbe poco da immaginare quell’ultimo grido….!

Comunque, l’immagine è quella dell’Eroe umile, che viene dal popolo.Fiero e stravagante su due ruote senza una gamba.E che da solo rappresenta oggi i milioni di soldati sul fronte della Grande Guerra. Tutti vivi con quei baffi e gli occhi fermi. 

Poi c’è l’altra figura, elitaria, romantica, ma anche tecnologica.Francesco Baracca.

Il pilota di una macchina che vola con gli stivali. Niente sciabola ma un frustino, davanti a quel cavallino rampante impresso indelebilmente sulla carlinga d’altri tempi e nell’immaginario del Cavaliere senza paura.Il merchandising che poi si ripeté nel tempo, dal rombo di quel piccolo ferro che vola a quello rosso dell’auto per eccellenza che vola sulle piste delle corse.

 

Francesco Baracca

 

Dall’eccellenza dell’Eroe all’eccellenza dei motori.

Due Eroi, due miti. Due leggende. Due icone intorno alle quali d’improvviso sfumano fino a scomparire tutte le ragioni della guerra per la “ggg-gente”. E allora storici di professione o “di giornata”, studiosi vari e politicidàgli alle elucubrazioni sulle grandi politiche internazionali che alimentano e accendono le micce. 

Passaggio epocale dell’Era della seconda Rivoluzione Industriale dell’ultimo secolo del secondo millennio. Dal romanticismo ottocentesco, per noi risorgimentale,alle prime fonderie del nuovo secolo;dall’economia dello scambio di merci e dei prodotti manifatturieri della prima Rivoluzione Industriale degli stati nazionali a quella speculativa dei colonialismi, quando le masse operaie di casa propria cominciavano a farsi sentire, per il lavoro che cambiava e che mancava nelle campagne dalle monarchie costituzionali a quelle più liberali e “democratiche”, già pervase dal nascente socialismo delle classi meno abbienti.

Dagli stili neoclassici mescolati all’eclettismo delle architetture delle città agli stravolgimenti urbanistici hoffmaniani parigini; dal monumentalismo classicheggiante delle arti figurative alle dissacrazioni e all’azzeramento delle tradizioni dei Dada; dalCostruttivismo della rivoluzione del primo proletariato alla velocità dell’eroismo individualeFuturista.

Tutto fa brodo per giustificare o per spiegare la voglia di trincee e di reticolati.

“Quella”Grande Guerra, accesa nei due schieramenti dagli interventismnazionalisti, “usati” dai demo-massonici (n.d.r.: espressione crociana), invano contrastati dai pacifisti socialisti rivoluzionari.

Nei fronti opposti: da un lato il socialismo emergente che voleva collettivizzare la proprietà privata, ma che sceglie l’interventismo, assonante con la grande industria dei potentati massonici per garantire il lavoro alle nuove masse operaie che invadevano le città provenienti dal mondo contadino,dove i latifondi erano sempre più deserti, e dall’altra parte quei socialisti della rivoluzione del proletariato,pacifista, che voleva annullare gli stati nazionali.

In mezzo agli schieramenti la trasformazione della politica, che dall’autoreferenzialità monocratica delle monarchie ereditarie cerca di mantenere il primato nell’autoreferenzialità elettiva. Anzi, partecipa e favorisce i dibattiti pubblici e diffonde comportamenti per la partecipazione popolare alle spese di guerra.Dai soldati volontari 

 

 appassionati per i ferventi patriottici, al volontariato “azionista” e solidale al gran richiamo della Patria!

Intanto si parlava di Guerra Europea, persino nel titolo degli attestati di militanza dei reduci. E che poi diremmo, forse, Guerra fra Europei. Ma se quelli erano schieramenti di alleanze distinte, oggi, per quel che vediamo di “quel che resta, avremmo difficoltà,forse, a interpretarne i contorni.

 

 

Ma questa è un’altra Storia. Quella dei confronti-scontri fra Paesi, o Nazioni?, che sembrano, cent’anni dopo, ritornare alla cadenza di allora, ancor più stimolati dalle nuove identità che introducono un nuovo tema di “discussione”, si fa per dire!, quello dello scontro di civiltà e/o di religione.

 Ragazzi, che mescolanza!

 Resta quasi l’odor del sangue nelle trincee persino attraverso le foto in bianco e nero. Sbiadite e inedite. Ma forti nella crudezza delle scene.

Le urla degli assalti.

Il fremito della “bella morte”, che sembra invocata come spezia salvifica di una vita che doveva essere bruciata nel fuoco della storia.

 Ma anche quella, “la bella morte”, è stata deturpata dalla vigliaccheria dell’uomo non ancora sazia per le occasioni delle mitraglie. Dopo i lanci di armi chimiche spuntavano,nell’ultimo pulviscolo, ombre nella nebbia dei gas, con asce e piccozze come guerrieri delle notti medioevali. A finire gli ormai inermi e indifesi abbattuti dalla chimica di guerra.

Armi “siccome antiche”. Persino raffinate, per far peggio del male e persino decorate: quando vuol far male, l’uomo, diventa artista. Insuperabile nel sadismo “della finitura”!

 

Particolari di ascia con decorazioni diffuse

 

Le armi di finitura

 

Sacrario Scuola Militare di Roma

Palazzo Salviati

 

 

 

Particolari cesellature della piccozza-scure e dell’impugnatura

 

 

 

Le armi di finitura

 

 

 

 

Sacrario Scuola Militare di Roma

Palazzo Salviati

 

 

La Grande Storia. Fino a diventare leggenda.

Ma perché salvifica? Già, per sacrificarla per il baluardo dei confini delle Alpi.

Per il riscatto di che? Ari-già, dell’onore di una Patria non compiuta ancora.

Quando l’unico senso dell’insieme, a livello nazionale, cominciò a manifestarsi in trincea, prima del “salto” al di là dei sacchi di sabbia, guardandosi negli occhi nell’attesa del fischi dell’urlo di incitamento,Savoia!”, imprecando,la bocca ancora impastata dal vinaccio rosso più del sangue,in lingue diverse, che erano i dialetti, sentiti per la prima volta “in diretta”. Tante volte per l’ultima di quelle volte là!

O raccogliendo “i compagni di guerra” sanguinanti. Quell’ “insieme” che per la prima volta, forse l’unica da cent’anni a questa parte che accompagnò il treno da Aquileia a Roma con le spoglie del Milite che rappresentava tutti i nostri 600 mila e più. Tre giorni di un lento treno che, sempre più lungo, attraversava piano piano senza fermarsi tutte le stazioni a passo d’uomo davanti a moltitudini inginocchiate. In attesa. Ferme nel pensiero dentro sé stesse. Per trovarsi “insieme”, composte, dentro un “luogo”. Quello che cercavano e scoprirono con le ginocchia che sembrava non facessero male. La Patria.

 

  

Ci fu poi una guerra “dopo”. Dei delusi, degli insoddisfatti, dei vincitori che si sentirono sconfitti. Dei vinti che vollero riscattarsi. Sì, occorrerà parlarne.

Perché a quell’eroismo si rifanno gli anni successivi, a quelle passioni represse che esplodono nel secolo dell’ideologia.

 Resta, uno degli esempi, uno dei tantissimi, quello di Ulisse Igliori. Medaglia d’Oro al Valor Militare, mutilato, non certamente un Eroe occasionale sia per altre decorazioni sia per le “tacchette” delle 6 ferite sul braccio. Che seguì l’avventura dannunziana a Fiume, partecipò alla marcia su Roma col Duce, ma lo sfidò al duello. Fondò squadre di calcio (la Roma). Divenne imprenditore e fece cose strabilianti: una di queste fu la Scuola di Guerra Aerea di Firenze (dove oggi, dal 2006, è sede della Douhet, la Scuola Militare dell’Aeronautica) in qualcosa come 11 mesi. L’Eroe futurista, uno dei tanti, che continuava a percorrere la sua velocità dello spirito non domo nella via della vita di tutti i giorni.

  

Il Ten. Ulisse Igliori

Medaglia d’Oro al Valor Militare

 

 

sopra: le 6 fascette che attestano

6 ferite di guerra

 

 

Inaugurazione della Scuola di Guerra Aerea a Firenze, marzo 1939

 

Il complesso della Scuola di Guerra Aerea,

oggi Scuola Militare “Giulio Dohuet– Foto di repertorio

  

O restano poche tracce sparse, come quella di un’immagine della cronaca nera che sui giornali passa la foto di un’arma sequestrata a tre violenti ladruncoli, tra l’altro “nuovi

  

 

 extra europei” dell’Est”, chissà, forse delle stesse parti da dove cent’anni fa discesero “baldanzose”, con matricola limata e irriconoscibile, ma che lascia ancora in vista la provenienza , R.M., cioèRegia Marina, con l’Ancora intarsiata e visibile, e anno di esecuzione, 1915 – 1919.

Un piccolo messaggio di cent’anni fa passato inosservato.

Tutto passa.

Scorre sotto i ponti lunghi della Storia dimenticata. O Nascosta. O inventata.

Ma che i fatti di oggi ci impongono.

E che poi ritornano quando li confrontiamo, oggi, nella città dell’immagine, a estremo soccorso del ricordo dei nostri defunti. Quando la causa era un po’, é, alquanto più nobile.

 Ecco, questi pensieri servono per fare una specie di mozione d’ordine. Siamo sommersi da fiumi di articoli sui media, trasmissioni televisive di ricordi, convegni commoventi e metri quadri di foto inedite e di filmati.

La Grande Guerra di cent’anni dopo. Potremo dire di più oltre queste considerazioni? 

Di quella Guerra Grande poche immagini, pochi nomi. Per tutti resta una sola parola: “Caporetto”, che ci mortifica, e noi stessi che quasi proviamo gusto a mortificarci da soli.

Ma nessuno dice che fino a Caporetto il soldato Italiano ha saputo lottare e difendersi, e attaccare, e vincere passo passo le posizioni, perdendole dopo e riconquistandole subito dopo.

Fa però comodo parlare di una sconfitta. Lì a Caporetto.

Perché se fa comodo anche parlare della vittoria successiva, fa anche comodo scaricare sui Comandi Militari quella sconfitta, anche se parziale.

Leggeremo insieme un inedito, e vedremo cosa c’è stato e che ancora non s’è saputo.

O meglio, si è saputo e che sembra essere dimenticato.

O che si vuole non far sapere o far dimenticare.

Cioè, Caporetto, non fu disfatta, ma forse fu un fronte dis-fatto.

 Proveremo a spezzare quel cerchio che chiude le tracce dei resoconti sui giornali di strada e le colora di Storia, che, come per tutti gli anni del tempo, è la Storia che si vuole, non quella vera.Purtroppo è quella che ci resta.  

Che ci sommerge, con la successione caotica del macabro, quando non si sa più cosa sia il valore della dignità di quegli uomini, oggi infangato dall’inerzia e dall’asuefazione, e dai tanti flash che neanche fanno rumore.

All’immagine dell’ultima spiaggia senza parole.

Il deserto non si dice.