N U N Z I A T E L L A

 

I C A N T O S

 

 

Gabriele Albarosa è il cantore

 

CANTO PRIMO

 

IL PRIMO GIORNO

Nel fior di gioventù a Pizzofalcone
Un giorno di Settembre, era mattino
La soglia di un atavico portone

Frontiera dei ricordi di bambino
Attraversai, seguendo quella stella
Che fece uno con cento il mio destino

Perché chi è in grado di restare in sella
Spogliato d’ogni cosa e di se stesso
Di un’altra madre, della Nunziatella

Diventa figlio, ieri come adesso.
Ma allora quel finale sì sereno
E per tre anni ancora il manto spesso

Che quel ch’è da venire rende alieno
Celava, ed io con piglio trepidante
Entravo e mentre entravo, in un baleno

Il dì si fece notte, il ciel tonante
Non per fortuito evento naturale
Ma per grand’urla all’ombra di un gigante.

Si presentò: pacato ma formale
Qualificato, il grado d’Istruttore
Mi mise sull'”Attenti” e poi, cordiale

Spiegò che là, dinanzi a un superiore
Dovevo solo replicar: “Comandi!”.
E fu così che cominciò il terrore.

“Alzi la testa! Tenda! che fa…: il dandy?!?”
Gridava senza sosta, brutalmente
“Batta la pianta! Adesso! Non rimandi!”

“Qui si sta all’erta! Dorme?!? NON CI SENTE?!?
Non si bisbiglia e chi è chiamato URLA!
Si va di corsa qui, costantemente!”

 

Incredulo capii …non era burla!
Confuso, senza il minimo potere
Attonito per fifa che tradurla

È vano: chi no’l fe’ non può sapere.
Così, svanita ogni cortesia
Fui collocato in coda dal barbiere

Il quale, per indiana ortodossia
Nello scalpar, avea per soprannome
“Cocìs”, decurtator di vanteria.

Il suo rasoio le narcise chiome
Senza pietà rendeva al pavimento
E via tosando, non importa come

Del pelo conseguì l’azzeramento.
La sala era un bazar di boccoloni
I proprietari in preda allo sgomento

In fretta organizzati in tre plotoni
E nove squadre – non senza ironia-
Fur quinci battezzati “cappelloni”.

Non v’era intorno cenno d’allegria…
silenzio, lacrime costrette
Fondavano la prima compagnia.

E poi di corsa, su per le scalette
Con le ginocchia alte, mani al petto
In magazzino a prender le magliette

E calze, scarpe, biancheria da letto
Bretelle, mutandoni, spazzolino
Mimetica, cintura, cappelletto!

Quest’ultimo, ch’era agli estremi bino
Di punte, era di qui perciò chiamato
“Due pizzi” e mi sembrò molto carino…

…Finché non vidi com’era indossato:
Calcato sulle orecchie in modo bruto
A enfatizzare il mal del nuovo entrato

Meschino, in men di un’ora decaduto
Per opera di demoni col grado
Da cigno ad anatroccolo sperduto!

Se gli istruttori furon primi al guado
Caronti in grigio-verde, capisquadra
Degli altri, che parlavan più di rado

Dall’andatura nobile e leggiadra
Ringhiavano comandi per procura
Forti di una vision che tutto inquadra

Eran gli Scelti, oggetto di paura
E di rispetto, per l’intransigenza
Plotoni allievi sotto la lor cura

Ma il sommo possessor d’onnipotenza
Il duce dell’intera compagnia
Anticipato nella sua presenza

Da battiti di pianta in sinfonia
(Tuonar da fare invidia al divo Giove)
Da stormo di saluti in sincronia

(Coreografia che ancora il cor commuove)
Portava il titolo di Caposcelto
Dal suo scrutar volevi essere altrove

Perché se dell’arconte l’occhio svelto
Si soffermava sol più d’un secondo
Facea l’uccel padul di te un prescelto.

Queste figure tinsero lo sfondo
Di un anno dove il motto era “subire”
Autorità di un mondo fuor dal mondo.

Il giorno non sembrava mai finire
Quel primo giorno, giunto in camerata
Mi fu insegnata l’arte del vestire:

“Mimetica! Pigiama! Che fa…fiata?!?
Mimetica! Pigiama! Si presenti!
Guardi che la cravatta va annodata!

Le sto parlando: scatti sull’Attenti!
Mimetica! Pigiama! Sveglia! Azione!
Camicia! Drop! Al tempo! Si presenti!”

A suon di urla tosto la lezione
Dai capi di vestiario prontamente
A geometrie di maggior dimensione

Passò: lenzuola a spigolo tagliente
Coperte ripiegate in modo fino
Cuscino in mezzo, posto dolcemente

E per finire intorno il copertino.
“Che schifo, questo è indegno di un cadetto!”
Non s’attardava al ringhio l’aguzzino

Ed eccomi a rifare “cubo-letto”.
I letti si estendevano a decine
Ognuno aveva in fronte un armadietto

E al fondo, i lavatoi e le latrine;
L’intimità, fino a ier sera amica
Negata, relegata oltre confine.

Venne la sera e morti di fatica
Ci fu concesso il sonno: “TUTTI SOTTO!”
Decubitàti in men che non si dica

In un clamor di brande scosse al botto
Di corpi in preda al panico in ciabatte
Tuffandosi nei letti chi al disotto

Chi al sopra del castello che ora sbatte
E cigola nell’assorbir lo slancio
Per poi quietarsi a nuovo a corse fatte.

E nella quiete si potè il bilancio
Del prologo di un grande cambiamento
Trarre: nel buio un vero e proprio lancio!

Col cor che ancor batteva a più di cento
Volsi lo sguardo a rimirar le volte
Vetuste del soffitto e un firmamento

Svelossi al lor pian piano esser disciolte
Pe’ i languidi richiami di Morfeo
In infinito ciel laddove molte

Stelle facèan di quell’androceo
Crisalide dal manto ricamato
Immersa nel silenzio acheronteo

D’un tratto fratto dall’inaspettato
E malinconico suonar di tromba
“Silenzio”, ninna-nanna del soldato

Sulle cui note è l’eco della bomba
Il pianto della mamma e degli eroi
Di speme e pace il volo di colomba.

…Quanti eran stati un tempo come noi!
Dissimulando gemiti e singulti
Su quelle stesse brande il prima e il poi

In modi misteriosi, forse occulti
Mescevansi facendo di stranieri
Per genus, per età, per luoghi e culti

Fratelli. E infine l’oggi si fe‘ ieri.