La traduzione letteraria

dalla lingua statuale al dialetto.

E viceversa

 

di Mimmo d’Angelo

 

SUL DIFFICILE PERCORSO DEL TRADUTTORE DALLA

LINGUA DEI LUOGHI, IL DIALETTO, A QUELLO DELLA

LINGUA DI TUTTI, STATUALE

 

1 – Premessa

 

Questo articolo nasce da due circostanze fortuite. La prima riguarda la decisione che presi di tradurre in napoletano una mia commedia, “Cassandra e la Pizia”, già scritta e rappresentata in lingua italiana.

La seconda, scaturita dall’ esperienza della prima, quando raccolsi e misi in ordine gli elementi sorprendenti in cui mi ero imbattuto e chiesi alla gentilissima e bravissima Simona Cives, Direttrice della “Casa delle Traduzioni” di Roma, se poteva essere interessante farne oggetto di un Seminario.

 

Tra i miei interessi e le mie attività c’è infatti anche quello della traduzione letteraria o traduzione “alta” (scusate ma quest’espressione viene usata

spesso) ed a Roma la “Casa delle Traduzioni” diretta appunto dall’ottima Simona Cives è un fiore all’occhiello nell’organizzazione delle Biblioteche della Municipalità Capitolina (in tutto 32 biblioteche).Organizza incontri, seminari ed eventi sull’argomento Traduzione letteraria (ma non solo) e gestisce anche una piccola foresteria dove sono ospitati per periodi di 2-3 mesi, scrittori e traduttori stranieri ed italiani impegnati nel loro lavoro (altre informazioni più esaustive si trovano sul sito www.bibliotechediroma.it.

Perciò poco più di un anno fa, nel Novembre 2014, ho tenuto un seminario sull’argomento “la Traduzione letteraria. Da una lingua statuale al dialetto” di cui quest’articolo è un estratto. La traduzione letteraria, ovvero la trasposizione di un testo letterario da una lingua ad un’altra, riguarda di solito, le cosiddette lingue nazionali più o meno “ufficiali”. Ma, prima di cominciare ad addentrarci nel tipo di discorso che voglio fare oggi, è necessario dare alcuni contorni, quelle che di solito si chiamano “definizioni”. In realtà, anche se spesso comprendiamo e sentiamo la necessità delle definizioni – e la difficoltà a trovare quelle giuste – per quanto mi riguarda specie nella letteratura e nell’espressione artistica, preferisco ampiamente le metafore.

 

A mio giudizio infatti le (de)finizioni “finiscono, fanno comunque finire” l’oggetto definito, mentre le metafore “colorano l’oggetto descritto, ne tolgono i confini, ne aprono di nuovi, magari infiniti” (ossimoricamente).

 

Oggi poi affronteremo un tema apparentemente “a latere” nella traduzione letteraria, ovvero quello della traduzione da una lingua nazionale ad un dialetto.

Cominciamo dalle cosiddette lingue nazionali, ufficiali, ecc.

 

A me piace chiamarle lingue ”statuali in quanto c’è sempre in esse una forte componente “Istituzionale”, delle strutture ufficiali di uno Stato.

In questo ambito come possiamo chiamare il Dialetto : è una lingua o no? Innanzitutto – ed è una mia battaglia, da qualche anno non si parli mai di lingua, ma di “sistema espressivo-comunicativo”, magari in attesa di una parola nuova, più efficace e “reale”.

 

E vediamo perché. Tutti noi parliamo, a volte, anche di altre forme di linguaggio, del linguaggio della musica, della    danza, del cinema ecc.

Perché allora, anche tra addetti ai lavori (“I Linguisti”) si continua a parlare di linguaggio anche quando non c’è la    “lingua” (fisica) di mezzo?

Al riguardo mi viene in mente un paradosso.

Un ragazzo scrisse in un tema “stamattina siamo andati a scuola di pomeriggio: Sbaglia più lui o i linguisti quando usano le dizioni linguaggio della musica, della danza, ecc.? Ma, detto questo, il dialetto    è un sistema espressivo-comunicativo e, in se sì, in quali casi?

La risposta è certamente affermativa e se vogliamo una esegesi completa e scientifica dobbiamo far riferimento all’antropologia culturale ed all’antropologia etnica. Qui do per scontato tale assunto, anche perché per noi italiani il riferimento a Dante ed al dialetto toscano è storicamente e culturalmente ben noto.

 

Cos’è allora un “sistema espressivo-comunicativo”?. E’ un complesso articolato in cui possono essere individuati e distinti tre elementi fondanti

 

   A) – Significazione

   B) – Espressione

   C) – Comunicazione.

 

   Tra questi, dando per acquisita la primaria necessità della significazione, le due polarità sono :

 

   ESPRESSIONE <==> COMUNICAZIONE.

 

Per Comunicazione ed Espressione bisogna parlare di POLARITA’ e non di Poli, perché le polarità sono opposte e si respingono, i Poli non si respingono.

   Esempi di Comunicazione più o meno pura : le frasi inespressive ma spesso violente della pubblicità (con la sua intrinseca apparente facilità ed

evidenza), oppure la frase comune “che ore sono?” (e qui il confine è già meno chiaro).

 

Esempi di Espressione più o meno pura : ”Ti amo” con due considerazioni :

   I -verificare (in questo caso, si consiglia, sempre!) se quanto espresso è    vero/sincero

   II) dipende sempre e comunque dalla partecipazione “emotiva” del “fruitore” del messaggio ed anche del parlante.

 

   Vediamo, molto sinteticamente, come i primi studiosi della tematica del linguaggio, cominciarono ad affrontare scientificamente l’argomento.

Il primo eminente studioso fu lo svizzero Ferdinand de Saussure, linguista e semiologo. Alcune sue “definizioni” (appunto!) sono ormai d’uso corrente.

La più importante e nota riguarda la distinzione tra linguaggio e “langue”.

 

    –    il linguaggio (o langage) come potenzialità universale di             sviluppare un sistema di segni.

    –    la langue, intesa come un sistema di segni che formano il codice       di un    idioma. Va distinta dalla parole, cioè dall’atto linguistico del       parlante, che è “individuale” e “irripetibile”

 

   Ma per la traduzione letteraria la “Bibbia” è un piccolo saggio (poco più di una ventina di pagine) dello scrittore, filosofo e critico letterario tedesco Walter Benjamin (parleremo più avanti l della “J” del suo cognome…) “Il Compito del Traduttore”, nella raccolta “Angelus Novus”, da “Gli Struzzi” di Einaudi. E’ a questo testo-base che deve far riferimento chi vuole iniziare nel modo giusto l’approccio alla traduzione letteraria. E, oltre al saggio già citato, in generale, tutti i suoi scritti sulla lingua (anzi, sul sistema espressivo-comunicativo parlato e/o scritto).

 

         A sua volta, il più grande critico letterario vivente, lo svizzero-tedesco George Steiner, nel suo meraviglioso saggio “Le Antigoni”, fa riferimento a due posizioni “estreme” nell’approccio alla traduzione letteraria, e precisamente :

 

quella di Holderlin ==>fedeltà assoluta al testo dell’autore originario l’“Ur-testo” (sul significato di “Ur” vedi più avanti).

Addirittura Holderlin sostiene che la fedeltà va estesa anche al contesto storico-antropologico dell’autore). Tanto per chiarire, nel caso dell’Antigone di    Sofocle, all’antica Grecia…

 

quella di Kierkegaard ==> libertà del traduttore, adesione alla langue e dai “tempi” della lingua d’arrivo del traduttore (addirittura alla lingua scritta/parlata dell’epoca, dei tempi vissuti del traduttore).

 

Dopo aver brevemente parlato della traduzione letteraria (o “alta” come ricordavo), passiamo al nostro tema riguardante la traduzione da lingua statuale a dialetto. La prima cosa da dire è che, anche in questo caso, la necessità è biunivoca, ovvero   :   

 

1)   lingua==>dialetto : ad es. “la Divina Commedia” tradotta in    calabrese, pubblicata da poco, per i contadini, i pastori (anche quelli    giovani! E anche al giorno d’ oggi, in Italia) ecc. Sono persone che   non “capiscono” veramente l’italiano, non lo parlano mai.

 

2)   dialetto==>lingua :    In questo secondo caso, potremmo aggiungere    Perché??   Perché le lingue ufficiali nascono, anzi “sorgono” da uno o    più dialetti locali/nazionalcomuni, altrimenti sono language di fatto       morte. Vedremo, più avanti le considerazioni su Globalese” (!?) e l’       “Esperanto”.

 

 

2 – L’approccio “alto” alla traduzione letteraria (Nota 1)

 

Cominciamo con un esempio di traduzione dal basso, con un riferimento preciso. L’approccio basso alla traduzione dall’Inglese è il “Globalese” (o Inglese globale, il termine aggettivale è stato coniato da J. Trabant, un tedesco). E’ un neologismo talmente brutto che mi sento di chiamarlo “autologico o autodescrittivo”(Nota 2).

Lo sentiamo e lo subiamo tutti i giorni, con i suoi innumerevoli acronimi, i nuovi modi scrivere, le forme stereotipate ed orribili che tutti fanno più o meno finta di capire.

Da rifiutare tout court, anche per traduzioni d’uso corrente. Per queste basta far riferimento alla grammatica ed alla sintassi classica. Si può usare solo se “si vuole” quel tipo di effetto o per ragioni specifiche.

   

Ma, come è noto, Il primo tentativo di language universale fu l’”Esperanto”, almeno parola bella invece – almeno per me – forse perché viene da “Esperanza”…

 

La vetta più alta raggiungibile sarebbe quella che, di nuovo il grande George Steiner chiama la “totalità semiotica” dicendo che essa viene raggiunta nel coro della tragedia greca “…il coro greco attua una totalità semiotica…

perché il Coro greco è personaggio che partecipa all’azione ma è anche il pubblico, la voce della gente che parla, canta, danza e si esprime con immagini. Stavolta mi sento di dire che Steiner ha trovato veramente

la bellezza di una grande definizione”.

 

L’approccio “alto” è’ utile ed importante anche per una traduzione tra lingue statuali. Nel mio caso è risultato veramente indispensabile.

   Il dialetto-lingua napoletana infatti agisce sempre con assoluta prevalenza dell’esigenza espressiva (empatica) sull’esigenza comunicativa (utilitaristico-razionale) che è invece tipica delle lingue statuali.

 

 

3 – La necessità iniziale nel dialetto : un “UR-paradigma”

 

UR” è una sorta di prefisso, quasi sempre tonico, della lingua tedesca, col valore di «antichissimo, primo, originale”. In tedesco ad es. lUrFaust è la prima versione, semiufficiosa, del Faust di Goethe. Ma questo prefisso, d’uso comune nella lingua tedesca, è spesso usato ampiamente in letteratura e lo farò anch’io perché, nel nostro caso ne ho sentito la necessita nel primo

   

Mi piace cominciare da una bellissima canzone su Napoli, anche per aver l’occasione di ricordare il suo grandissimo autore/interprete, prematuramente scomparso. La canzone di Pino Daniele Napul’é.

   

Se si ascoltano le parole e si prova a scriverle, risulta assolutamente chiaro che l’alfabeto italiano ufficiale o statuale” non è assolutamente in grado di

inventare-ricercare-razionalizzare questi che ho chiamato “UR-elementi linguistici”

 

.. alfabeto (es. lingua russa Vassilij + segno debole-segno forte

fonetica (ancora prima di alfabeto? si, credo)

.. grammatica

.. sintassi

 

Nelle lingue statuali tutti questi elementi ci sono già, nei dialetti, NO, nei dialetti non esistono o non sono codificati, né resi “statuali”.

 

    Fatte queste considerazioni generali entro nel merito della tipologia delle problematiche in cui mi sono imbattuto nella “traduzione” dall’italiano al napoletano della mia commedia “Cassandra e la Pizia”

 

 

4 – Un caso reale – La traduzione di “Cassandra e la Pizia”

 

Quando nel 2011 scrissi quest’opera teatrale, mi posi, tra gli altri obiettivi, quello di provare a realizzare, al giorno d’oggi, una “Commedia Aristofanea”.

Ma in che senso intendevo – ed intendo – questo termine ?

 

   a) – In senso estetico-formale ===> FORMA    

 

   approcciando il linguaggio e lo stile aristofaneo (piuttosto “forte”, com’è noto anche nell’uso del turpiloquio corrente) ma anche    attualizzandolo tenendo conto che l’autore, cioè il sottoscritto, vive ai    tempi d’oggi

 

   b) – in senso satirico-sociale   ===> CONTENUTO    

 

facendo riferimento, nella storia raccontata, ai miti, ai personaggi ed    agli eventi dell’antica Grecia, ovvero l’Ellade.

 

   Ciò premesso per quanto riguarda la prima versione, in italiano, ho cercato nel passaggio al nobile dialetto napoletano di realizzare una traduzione piuttosto “libera” (forse come avrebbe inteso Kierkegaard, absit iniuria verbis), anche perché avevo i seguenti “vantaggi” :

 

1-    il traduttore e l”autore erano la stessa persona

   2-    la lingua di partenza e la lingua di arrivo erano entrambe, per me,          lingue madri (a casa mia i miei genitori e parenti vari parlavano in          napoletano)

 

 

Alcuni Esempi/Casi

 

4.1 – parole/locuzioni

   

1    iettatrice ==> tradotta in puortauaje, non “iettatrice”

 

(anch’essa usato in napoletano) perché la superstizione è cultura non solo popolare, accettata come e più della religione (cfr. “La patente” di L. Pirandello ecc). La Religione ha riti e liturgie ecc. addirittura più “surreali” (eufemismo) e soprattutto fuorvianti, e con finalità del tutto intenzionali.

 

2    bordello   ==> bburdelle(due bb?) .

 

Vedi il vocabolario Italiano-Napoletano di Carlo Iandolo, considerato oggi forse il migliore (ne esistono 2-3 oggi, a mia conoscenza).

Lo Iandolo per questo termine sostiene che in francese sta per “casetta” (sic!) e, in napoletano (per fortuna…) “casa di    malaffare” o, per traslato, “confusione ecc”. (poteva dire “ammuina”, no?).

 

4.2 gestualità e musica

 

         a – un gesto fatto dall’attore nel prologo ==> nella versione          italiana non c’è proprio, non si usa nel parlato, diventa molto

      teatrale   nella versione napoletana, perché e di uso molto più corrente (non posso scriverne in italiano, agli amici o “al mio unico lettore” ne parlerò a voce)

 

b nella versione napoletana entrano a far parte dello spettacolo musiche e sonorità della tradizione napoletana    quali “tammurriata nera, era de’ maggie ecc….

 

 

5 – Conclusione

 

Come ho accennato nel corso di questo articolo, qualche tempo fa mi sono trovato nella necessità di tradurre dall’italiano al napoletano una mia commedia. Poiché faccio anche, per passione, il traduttore letterario – più spesso dal tedesco, talvolta dall’inglese – pensavo di essere, almeno tecnicamente abbastanza attrezzato al compito.

 

In realtà ho scoperto, in modo del tutto sorprendente, che tale tipo di compito pone oggi al traduttore letterario dei problemi a monte che, nella traduzione delle lingue nazionali o “statuali”, non sono presenti.

Ho chiamato le categorie di queste problematiche “UR-Paradigma” facendo riferimento alla lingua tedesca. In questa lingua infatti UR” è una sorta di prefisso con il significato di «antichissimo, primo, originale”.

 

Di questo paradigma ho individuato gli “UR-elementi linguistici”

 

   .. alfabeto

   .. fonetica (ancora prima dell‘alfabeto)

   .. grammatica

         .. sintassi

 

che non esistono (o non sono scritti/formalizi) nei Dialetti.

 

   Sono andato avanti nella mia “traduzione” tenendo conto di ciò, ma naturalmente il lavoro/impresa da fare è molto lungo ed impegnativo, Il

   mio, il nostro impegno di “pizzolfalcone” è di continuare e di stimolare questa che è un’attività di ricerca e di impegno culturale che è nelle nostre corde.

Di certo alcune Istituzioni (ad es. L’università di Napoli, ma non solo) si saranno già trovate ad esaminare la tematica o potrebbero esserne interessate.

Ci metteremo anche in contatto con loro oltre ad invitare tutti gli ex allievi o le persone – tantissime – che amano Napoli a dare il loro contributo.

   Siamo a vostra disposizione, noi andremo avanti.

 

 

Note

 

Nota 1 Si consiglia la lettura degli atti del Seminario Europeo                sulla Traduzione letteraria (10 Ottobre 2014, Roma Goethe             Institut)

 

Nota 2 Nella terminologia di Kurt Grelling – logico e filosofo tedesco vengono definiti gli aggettivi autologici o autodescrittivi ed eterologici. L’aggettivo “breve” è breve, l’aggettivo “italiano” è italiano, l’aggettivo “   polisillabico” è polisillabico. Ognuno di questi aggettivi è, nella    terminologia di Grelling, autologico : ognuno è vero di se stesso. La maggior parte degli aggettivi sono eterologici : così “lungo” che non è un aggettivo lungo o “tedesco” che non è un aggettivo tedesco ecc. Ma c’è anche il cosiddetto paradosso di Grelling : l’aggettivo “eterologico” è autologico o eterologico?