1989. L’ANNO DEL TERRORE

(2^ parte)

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6.La situazione. Gli eventi del mese di agosto 1989.

I bombardamenti siriani, iniziati il 14 marzo, proseguivano nel mese di agosto con terribile violenza, su tutta l’enclave cristiana, sia di giorno sia di notte. Il terrorismo a colpi di cannone non piegava tuttavia la volontà di resistenza dei cristiani. Un aliscafo privato cercava di mantenere un legame con Cipro, ma era costretto a imbarcare i passeggeri al largo per evitare di essere colpito. A volte le scialuppe si ribaltavano per effetto dell’onda provocata dall’esplosione di una granata caduta nelle loro vicinanze e in molti, specie bambini, annegavano. I siriani impiegavano senza economia i cannoni di grosso calibro e i mortai da 240 mm, armi molto potenti dagli effetti disastrosi. I rifugi, qualora colpiti da questi grossi ordigni, non davano scampo a quanti vi si trovavano.

In agosto, anch’io ero coinvolto da tre eventi drammatici. Ho rischiato di non poterli mai raccontare. Momenti tragici che, a volte, affiorano ancora oggi nei miei ricordi.

Domenica 6 agosto, a causa del caldo afoso, avevo deciso di recarmi nel residence estivo Saint Paul, a circa 30 chilometri dalla mia abitazione, in località Tabarja, dove avevo affittato, fin dal 1987, uno chalet. La giornata festiva trascorreva insolitamente tranquilla ma la sera, verso le 2o.00, iniziava un bombardamento particolarmente esteso e violento, in particolare sull’autostrada, impedendomi di rientrare in sede fino al mattino successivo. Però qualcuno “lassù” mi stava proteggendo! Intorno alle quattro del mattino di lunedì 7, infatti, un razzo con propulsione addizionale da 107 mm (quelli chiamati katiuscia!), proveniente dalle postazioni siriane, colpiva l’ala notte del mio appartamento, devastandola. Il razzo, dopo aver perforato la colonna portante in cemento armato del palazzo, esplodeva all’interno di un armadio a muro posto dietro la colonna stessa, polverizzando le scarpe, mie di mia moglie e di mio figlio. L’esplosione distruggeva anche un altro armadio interno, lasciandomi praticamente senza vestiario, fatto salvo quel poco che tenevo in Ambasciata. Anche un salottino interno veniva ridotto in briciole. Il razzo faceva sicuramente parte di quelli che, a decine, erano caduti sulla caserma dell’esercito libanese, situata a circa trecento metri in linea d’aria dal palazzo dove abitavo. Tre razzi, fuori traiettoria, avevano colpito, uno la mia stanza da letto e gli altri due un palazzo attiguo. “Fortuna nella disgrazia”, l’ordigno non era entrato nella camera dall’ampia finestra ma aveva colpito un punto molto solido della costruzione. Nel caso contrario, avrebbe fatto danni in tutto l’appartamento. Mentre mi avvicinavo con l’auto al palazzo, dopo aver visto gli effetti disastrosi del bombardamento notturno lungo tutto il percorso, avevo avuto la sensazione che era successo “qualcosa” anche a me, presentimento che andava via via aumentando con l’avvicinarsi al luogo di residenza. La percezione del pericolo e dell’imprevisto era ormai diventata quasi un sesto senso, una seconda pelle. Si era affinata in misura proporzionale all’aumento dei rischi, ed era un valido aiuto per affrontare molte spiacevoli situazioni, grazie anche alle continue scariche di adrenalina.

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Nella prima foto si nota il foro di entrata. Nella seconda l’interno dell’armadio a muro.

Nella terza, i resti del razzo sul pavimento della camera da letto.

Appena arrivato sotto il palazzo, una piccola folla applaudiva e si congratulava con me per lo scampato pericolo. Molti coinquilini, infatti, pensavano che io fossi all’interno dell’appartamento. Non avevano osato sfondare la porta d’ingresso poiché sapevano che l’appartamento godeva della “extraterritorialità”. Sicuramente, se fossi rientrato a casa prima delle 20.00, questa disavventura non avrei mai potuto raccontarla!

Le foto, testimoniano abbastanza bene come era ridotta la mia camera da letto dopo l’esplosione del razzo che l’aveva colpita. Quello che non si vede era tutto ciò che era disposto sul pavimento (es. tre bellissimi tappeti persiani!) o dentro gli armadi: tutto polverizzato! L’unica cosa apparentemente intatta era il letto, ma appena è stato spostato, è crollato sul pavimento. Nella foto, che mostra i detriti sul balcone della stanza da letto, sullo sfondo si nota una torretta della caserma, che era appena al di là della autostrada.

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La parte superiore dell’armadio e il balcone ingombro di detriti.

L’11 agosto, dopo una calma durata qualche ora, iniziava un week-end infernale. Dalle quattro del mattino, i cannoni siriani avevano ripreso la loro musica di morte. Anche l’esercito di Aoun, nonostante il rapporto sfavorevole di 1 a 10-12, rispondeva colpo su colpo cercando di centrare le postazioni militari siriane, riuscendo a distruggere alcuni cannoni e un deposito di munizioni. I siriani cercavano solo di annientare le infrastrutture indispensabili per la sopravvivenza e abbattere quante più abitazioni possibile. Il loro tiro non era selettivo. L’ONU, preoccupato per la situazione, riuniva il Consiglio di Sicurezza, ma i pezzi da 130, da 180 mm e i micidiali mortai da 240 mm non arrestavano la distruzione dei quartieri residenziali di Beyrouth est e dei villaggi del Nord.

L’Ambasciata americana e la Residenza dell’Ambasciatore venivano colpite più volte, per fortuna senza vittime; solo danni materiali.

Il giorno 13, il buon Dio metteva, ancora una volta, la Sua mano protettrice e misericordiosa sulla mia testa.

Verso le ore 14.00, mentre effettuavo un trasferimento in autostrada per incontrare un informatore, un proietto da 130 mm esplodeva sulla carreggiata, qualche metro avanti al cofano di una vecchia Mercedes che mi accingevo a superare. La vettura libanese si “sbriciolava” letteralmente davanti ai miei occhi per effetto della potente esplosione. I due occupanti erano fatti a pezzi. Alcune schegge colpivano la mia pesante vettura blindata che sbandava sulla destra, come se un’enorme mano l’avesse afferrata e spinta da parte. L’onda di calore faceva fondere, in alcuni punti, il collante che tiene insieme gli strati del parabrezza antiproiettile, mentre l’onda d’urto, chiaramente avvertita all’interno, metteva fuori uso il condizionatore, la ricetrasmittente e il radio telefono montati sull’auto, impedendomi di comunicare con l’Ambasciata. Anche la radio portatile, che avevo sempre con me, era fuori uso. Le frequenze giravano impazzite senza che riuscissi a bloccare quella con l’Ambasciata. Dopo aver constatato che non potevo far nulla per i due poveretti, i cui resti erano sparsi sull’asfalto, proseguivo nella mia delicata missione. Cosa era successo? L’autostrada in quel punto passava al di sopra del porto di Jounieh, dal quale stava uscendo una piccola nave da carico. I cannoni da costa siriani, l’avevano acquisita sul radar e avevano aperto il fuoco per affondarla. Il primo colpo, lungo e fuori traiettoria, cadeva sull’autostrada, prima che la centrale radar aggiustasse il tiro. Le successive cannonate, infatti, centravano il porto ma, per fortuna, non la nave. Il proietto da 130 mm del cannone da costa, è molto più grosso e potente di quello dello stesso calibro da campagna.

La giornata del 13 era stata durissima anche sul terreno. Truppe siriane, spalleggiate dai miliziani islamici loro alleati, alle o6.00, avevano attaccato lungo quattro assi il fronte difensivo libanese di Souk el-Gharb, il più importante baluardo difensivo cristiano a protezione del palazzo presidenziale. Lo stesso Aoun aveva guidato il contrattacco, con l’appoggio delle artiglierie delle Forze Libanesi. Alle 15.00, gli assalitori erano stati respinti, lasciando morti sul terreno 28 soldati siriani, 17 miliziani del PSP e 25 palestinesi. Il Gen. Aoun, subito dopo questa la vittoria, denunciava l’accaduto all’opinione pubblica mondiale nel timore che, per lo smacco, Damasco decidesse di far intervenire l’aviazione, possibilità più volte minacciata. La popolazione, costretta a vivere in rifugi malsani e insicuri, continuava a chiedersi il perché nessuno fermava questi massacri. Chi poteva, emigrava all’estero o nel Sud e nel Nord del Paese.

In effetti, qualcosa però si muoveva.

Il 17 agosto l’ONU imponeva un “cessate il fuoco”, subito rispettato dal Gen. Aoun ma pressoché ignorato dai siriani e dai loro alleati. I bombardamenti, comunque, diminuivano di intensità, tanto che il 24 agosto, gli Addetti Militari residenti nel settore cristiano ne approfittavano per riunirsi a Yarzé, nel sinistrato ma ancora operativo Ministero della Difesa, per effettuare un esame collegiale della situazione. La minaccia di un attacco terrestre siriano in grande stile, appoggiato dall’aviazione era, infatti, nell’aria.

Al termine della riunione, alle ore 12.00 circa, sul Ministero, cominciavano a piovere granate di grosso calibro, comprese le bombe dei mortai da 240.

E questa è stata la terza volta in un mese che ho rischiato la vita.

La preoccupazione, prima di scendere nei sotterranei-rifugio, era quella di far allontanare l’autista dal parcheggio del Ministero, contattandolo via radio. Per circa due ore, potenti esplosioni risuonavano poco piacevolmente sopra le nostre teste. Durante una tregua, l’Ufficio di collegamento dell’Esercito libanese, metteva a nostra disposizione, un mezzo blindato per portarci il più lontano possibile dal Ministero e raggiungere le nostre autovetture che avevamo fatto allontanare verso località prestabilite.

Lo spettacolo di distruzione all’esterno era impressionante. Decine di auto distrutte, insieme alle infrastrutture d’emergenza realizzate nel perimetro esterno del Ministero. Dopo qualche centinaio di metri, il nostro mezzo (un M-113) veniva centrato frontalmente, in basso, da un colpo di mortaio di medio calibro. Il pilota era gravemente ferito alla testa e al collo dalle schegge, mentre tutti noi all’interno restavamo assordati e frastornati, per parecchi minuti, dalla deflagrazione. Dopo aver soccorso il povero soldato, non riuscendo a contattare la mia vettura di servizio, salivo su quella del collega francese e mi recavo presso il suo Ufficio. Qualche ora dopo, rientravo in sede con la mia auto, dopo aver finalmente contattato l’autista. L’effetto dell’esplosione sulle orecchie e nella testa durava per diversi giorni. Anche in quella occasione ero un “miracolato”. Se la bomba, anziché impattare nella parte bassa del frontale angolato, inclinazione che aveva molto attenuato il suo effetto dirompente, fosse caduta sul tetto dove “mancava il portellone superiore”, questa ulteriore disavventura non avrei potuto raccontarla.

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Gli Addetti Militari che si erano riuniti il 24 agosto 1989.

Da sinistra, in prima fila: Il Ten. Col George Semaane (in tuta mimetica), dell’Esercito libanese, Ufficiale di collegamento con gli Addetti Militari. Seduti: Addetto turco, Addetto italiano, Ufficiale libanese dei Servizi Informazioni (Magg. Antoine Abou Jawde), Addetto dell’Unione Sovietica, Addetto francese, Addetto polacco.

In seconda fila, in piedi: Addetto tedesco, Addetto spagnolo, Ufficiale dell’UNIFIL, Addetto USA, Addetto Algerino, Addetto inglese.

Tra di noi eravamo piuttosto uniti in quanto ci consideravamo tutti “nella stessa barca”. Personalmente frequentavo molto di più il francese e l’inglese. Con gli Addetti dell’Unione Sovietica (molto simpatico), dell’Algeria, della Polonia, ci incontravamo quasi esclusivamente nelle riunioni programmate o in qualche ricorrenza nazionale dei loro Paesi. Risiedevano nella zona musulmana, di difficile “accesso” perché bisognava attraversare la “linea verde”.

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L’M-113 colpito con noi a bordo, con i segni evidenti delle schegge.

Le foto mostrano gli effetti del bombardamento in un parcheggio del Ministero della Difesa. Lo stato del mezzo cingolato può far capire i momenti vissuti da chi era a bordo. Seguono foto su alcuni danni riportati dal Ministero della Difesa, in aggiunta a quelli subiti nei mesi precedenti.

Appena rientrato in Ambasciata informavo il Capo Missione dei risultati dei colloqui con gli altri Addetti Militari e con l’Ufficio di collegamento dell’Esercito libanese e anche quanto mi era successo al termine della riunione.

Nei rimanenti giorni di agosto la cronaca dei bombardamenti siriani restava immutata. Più volte, nei miei rapporti, avevo messo in evidenza l’indifferenza internazionale verso la tragedia libanese. In ogni caso, era forse più coerente un atteggiamento di disinteresse, di distacco piuttosto che quello di mostrare una illusoria volontà interventista, destinata a fallire ancor prima di essere iniziata. Si evitava di far fiorire effimere speranze in una popolazione ormai al limite del collasso fisico e psicologico e la strumentalizzazione da parte dell’avversario. Era il caso della Francia che, in alcune occasioni decideva di “fare da sola”, sviluppando delle manovre politiche indipendenti, dai risultati limitati e scarsamente convincenti. Dopo il violento bombardamento siriano del 14 agosto, Mitterand e il Quai d’Orsay davano il via all’Operazione Capselle, una azione diplomatica appoggiata da una forza militare. Cinque emissari francesi arrivavano a Beyrouth come negoziatori, scortati da una piccola flotta, compresa la portaerei Foch (2000 uomini e aerei a decollo verticale). Ufficialmente, la squadra navale doveva proteggere l’evacuazione di circa 7000 cittadini francesi ma era a disposizione di “tutti i libanesi”.

Qualsiasi fosse lo scopo della missione francese, la reazione di Damasco non si faceva attendere. Il compito era affidato agli alleati libanesi, i quali esprimevano con veemenza il loro “sdegno” su tutti i mass media, locali e internazionali. Nel frattempo, i bombardamenti proseguivano con l’intensità di sempre. La missione francese si rivelava un ennesimo fallimento.

Nel mese di settembre, la Lega Araba dava però nuovo impulso all’attività di mediazione. Il Comitato Tripartito, al termine di una riunione tenuta il 14 settembre a Gedda, in Arabia Saudita, redigeva una proposta d’intesa in sette punti, contenente le linee programmatiche per la stesura di un documento di riforma e per l’elezione del Presidente della Repubblica. Il progetto prevedeva la riunione di tutti i deputati al di fuori del Paese, per sottrarli alle ingerenze dei partiti, delle milizie e soprattutto di Damasco. Il Gen. Aoun, dopo aver consultato i propri collaboratori, accettava il testo del documento, raccomandando tuttavia ai deputati di non impegnarsi in nessuna riforma o decisione costituzionale se non era prima stabilita la data di ritiro delle truppe siriane dal Libano. Mentre si discuteva, le artiglierie siriane intensificavano i bombardamenti su tutto il territorio cristiano, incrementandoli con attacchi terrestri con carri armati e mortai, alle posizioni delle truppe fedeli ad Aoun. Il Generale non era disposto ad accettare che il Comitato Tripartito non menzionava la Siria nella sua delibera, come se Damasco “non fosse presente” in Libano. L’impossibilità di un dialogo tra le parti, in una città divisa da una frontiera, ognuna con il suo Governo, induceva a riunire a Ta’if , una cittadina dell’Arabia Saudita vicino alla città santa di La Mecca, 62 deputati, 31 cristiani e 31 musulmani. Dopo 23 giorni di dibattito, 58 deputati su 62 ratificavano un nuovo “documento d’intesa nazionale” (Wassika), conosciuto come Accordo di Ta’if che, in stretta sintesi, prevedeva il ritiro siriano dal Sud, concedeva a Damasco di mantenere le proprie truppe in Beyrouth ovest ancora per due anni, mentre potevano restare a tempo indeterminato quelle nella valle della Beqa’a e sulle montagne. Inoltre l’Accordo prevedeva il trasferimento di alcune prerogative del Capo dello Stato (maronita) ad altre autorità, in primis al Capo del Governo (musulmano). Mentre l’Occidente si congratulava per l’Accordo raggiunto, in tutto il settore cristiano si levava la protesta. Aoun dichiarava i deputati cristiani dei “traditori” per aver sottoscritto l’accordo (la maggior parte dei deputati cristiani per paura di ritorsioni restava all’estero!), scioglieva la Camera, privandola così del suo potere di ratifica.

Malgrado il blocco navale imposto dalla Siria all’enclave cristiana, dal 14 marzo al 30 settembre, 98 piroscafi di vario tonnellaggio erano riusciti a sbarcare 66.250 T di prodotti vari e 58.249 T di combustibili nei porti cristiani. L’istinto mercantile dei libanesi era più forte della guerra! E tra le merci arrivate, c’era anche la mia nuova vettura blindata.

Anche questa volta, la risposta politica di Damasco non si faceva attendere. Sfidando apertamente Aoun, in una a atmosfera carica di tensione, il Parlamento si riuniva il 5 novembre nell’aeroporto di Kleyat (Tripoli del Libano), gestito dalla Siria. I 58 deputati presenti (quorum 49) rinnovavano il mandato del suo Presidente, lo sciita H. Husseini e successivamente eleggevano il deputato maronita René Moawad 16° Presidente della Repubblica, con 52 voti favorevoli. La carica era rimasta vacante per 409 giorni.

Nonostante le proteste cristiane, il nuovo Presidente era riconosciuto dai Governi Occidentali e sostenuto anche dal partito maronita dei Kataéb.

Il 22 novembre, la Festa Nazionale dell’Indipendenza era celebrata separatamente, con due diverse cerimonie. Nell’Est, con una parata militare alla presenza del Gen. Aoun e di molti Addetti Militari, me compreso. All’Ovest, il neo Presidente, insieme ad Hoss e Husseini, riceveva molte delegazioni diplomatiche, che porgevano le felicitazioni dei loro Governi.

Al termine della cerimonia, una carica di 200 kg di esplosivo, nascosta in una piccola bottega di giocattoli posta lungo il muro di cinta di una scuola, veniva fatta deflagrare al passaggio del corteo presidenziale. Con il Presidente Moawad morivano altre 14 persone (7 membri della scorta e 6 soldati siriani), 34 i feriti. L’esplosione apriva un cratere di oltre cinque metri di diametro e danneggiava edifici nel raggio di cinquecento metri. Nessuna rivendicazione. La Siria dichiarava prontamente che l’assassinio presentava tre caratteristiche: l’esperienza israeliana, il sostegno iracheno e la mano di Michel Aoun.

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Il cratere prodotto dalla carica esplosiva che ha assassinato il Presidente René Moawad il 22 novembre 1989.

La brutale esecuzione del neo-Presidente, indipendentemente da chi fosse il mandante responsabile, forniva ai siriani il pretesto per eliminare politicamente il Gen. Aoun. Damasco, sostenuto dagli USA e dal Comitato Tripartito della Lega Araba, accusava pubblicamente Aoun e i suoi sostenitori di costituire il vero e ultimo ostacolo alla “pacificazione” del Paese.

Il 24 novembre, ancor prima di celebrare i funerali di Moawad, nel Park Hotel di Chataura, nella Beqa’a, sotto la protezione delle forze speciali siriane, 53 deputati (quorum 48) eleggevano al secondo turno, con 47 voti e 5 schede bianche, il 17° Presidente della Repubblica, il maronita Elias Haraoui, 63 anni, facoltoso proprietario terriero, molto vicino a Damasco e acerrimo nemico di Aoun. All’elezione assistevano gli Ambasciatori di Algeria e Arabia Saudita accreditati a Damasco. Il Presidente eletto, dopo aver ricevuto le congratulazioni personali del Presidente siriano Assad, leggeva un discorso che aveva “bello e pronto” (sic!) nella sua borsa. I deputati ne approfittavano per rinnovarsi il mandato di altri quattro anni, a partire dal 1990, per garantire l’applicazione dell’Accordo di Ta’if.

Il capo del Governo, Selim Hoss, confermato nell’incarico, nominava 14 nuovi Ministri. Il primo provvedimento del nuovo Consiglio dei Ministri era la nomina del Gen. Emile Jamil Lahoud, un Ufficiale di marina (maronita), quale Comandante in Capo delle Forze Armate al posto di Aoun, che veniva contestualmente rimosso dall’incarico. Al Generale erano date 48 ore di tempo per abbandonare il Palazzo Presidenziale di Baada.

Il 28 novembre, la Siria rinforzava massicciamente il suo dispositivo militare in Libano, facendo affluire: 15.000 soldati, 96 carri armati T-62, 120 pezzi di artiglieria di vario calibro, 40 lanciarazzi multi tubo da 107 e 122 mm, montati su autocarro. Dette forze si dispiegavano davanti a Baabda, nell’alto Metn e nella periferia sud della capitale, rilevando le milizie musulmane alleate lungo la linea verde. Durante questa operazione, un Mig siriano sorvolava parte della regione cristiana. Damasco minacciava sempre di più la temuta invasione della regione cristiana! La presenza militare siriana ora superava le 50mila unità con un parco di artiglierie e mezzi corazzati impressionante.

Com’era prevedibile, Aoun respingeva tutti i provvedimenti del nuovo Governo, sostenendo che le “decisioni prese da una amministrazione imposta da Damasco erano incostituzionali” e chiedeva a gran voce il conforto e il sostegno della popolazione. Migliaia di persone si recavano sotto il palazzo presidenziale di Baabda per appoggiare il Generale e approvare il suo atteggiamento di rifiuto nei confronti del Governo Hoss e per assicurare uno “scudo umano” protettivo contro i possibili attacchi siriani dall’aria. Era l’inizio di un braccio di ferro, che suscitava nell’ambito cristiano il risveglio di antiche rivalità e rancori. Geagea e le Forze Libanesi prendevano progressivamente le distanze, cercando di preservare la propria autonomia di manovra. Al rivale (di sempre) Aoun, Geagea non perdeva occasione per manifestargli il suo odio personale. Anche il Patriarca maronita Sfeir cercava di ammorbidire l’atteggiamento intransigente di Aoun, mentre gli Stati Uniti sostenevano la piena validità degli accordi sottoscritti a Ta’if e ciò era la premessa per il riconoscimento delle nuove istituzioni. La coalizione musulmana filo siriana aveva però scarsa fiducia nel Presidente Haraoui e riteneva che un intervento siriano nel settore cristiano poteva far perdere a Damasco l’appoggio internazionale. Infatti, non ritenevano di essere in grado di intervenire autonomamente con le loro milizie contro Aoun, dopo le sconfitte subite in tutti gli attacchi precedenti.

Il 18 dicembre, circa 300mila libanesi partecipavano alla “Marche du Drapeau”. Una bandiera del Libano di 150 mq, con 126.549 firme, veniva consegnata ad Aoun a Baabda, per manifestare la solidarietà del popolo cristiano al suo leader. Il Generale pronunciava un discorso che terminava con la frase “il Libano non sarà mai offerto in regalo alla Siria”.

Per tutto il mese di dicembre, una folla sempre più numerosa si era accampata intorno al palazzo Presidenziale, ribattezzato “la casa del popolo”. Lungo la strada, una grande bandiera recava la scritta “Da Praga a Beyrouth, una sola lotta, la libertà.” Nella folla si mescolavano anche molti musulmani e perfino stranieri.

Nei giorni di tregua dichiarata e abbastanza rispettata da tutti, le Agenzie Estere, i giornali e gli osservatori, facevano un bilancio di questo anno terribile: 1365 morti, 4712 feriti, dei quali 247 con handicap permanenti. I danni materiali erano incalcolabili. L’esodo delle persone era stato di: 450.000 abitanti di Beyrouth fuggiti al Sud, verso le città di Tiro, Sidone e Nabatié; 20.000 avevano trovato rifugio nella fascia di sicurezza controllata da Israele; 120.000 avevano raggiunto Tripoli e i villaggi cristiani del Nord, mentre 155.000 persone erano emigrate all’estero, partendo in massima parte dal porto di Jounieh.

Nelle pagine che seguono, ci sono alcune immagini dei bombardamenti che per mesi, nel 1989, si sono abbattuti nell’enclave cristiana. Sono la testimonianza degli effetti che i cannoni siriani, e dei loro alleati libanesi musulmani, hanno prodotto sul patrimonio edilizio libanese, durante la cosiddetta “guerra di liberazione”. Gli 850 kmq dell’enclave sono stati bombardati per mesi da circa 200 cannoni da 122, 130 (da campagna e da costa), 180 mm, e con mortai da 120 a 240mm (la cui bomba aveva una carica di 36 kg di esplosivo); a questi strumenti di morte si sono aggiunti razzi ad alto esplosivo tirati da razziere a 12 canne da 107 mm e a 22 canne da 122 e 144 mm. Anche i lanciabombe individuali RPG-7 hanno fatto la loro parte. Tutte armi citate erano di fabbricazione sovietica, così come i carri armati, le mitragliatrici terrestri e contraeree, le armi e gli equipaggiamenti individuali.

Effetti dei bombardamenti siriani nell’enclave cristiana nel 1989

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Un proietto inesploso da 130 mm.

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Una bomba da mortaio da 240 mm inesplosa

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Un razzo da 107 mm (Katiuscia) inesploso nel piazzale antistante il mio palazzo.

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Avanzi di bombe all’interno di una stanza colpita.

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Palazzi semidistrutti dalle cannonate siriane

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I corpi di persone uccise dai bombardamenti in attesa di essere sepolti.

La croce Rossa libanese faceva del suo meglio per portar via i morti e, qualora identificati, consegnarli ai familiari o ai Comandi militari. Era comunque un compito molto difficile e pericoloso perché i siriani non avevano alcun rispetto per le ambulanze, anzi, a volte facevano un vero e proprio tiro al bersaglio sui mezzi di soccorso e sui vigili del fuoco.

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Alcuni soldati uccisi in un appartamento vengono vegliati.

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I terribili effetti delle autobombe. Cadaveri orrendamente bruciati e mutilati.

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Morti e feriti sull’autostrada del Kesrouane, in attesa dei soccorsi.

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Nonostante le distruzioni, si continua a vivere in ciò che resta in piedi.

Dal 13 aprile 1975 al 30 novembre 1989. Su una popolazione di poco più di tre milioni e mezzo, c’erano stati: 180.000 morti, oltre 300.000 feriti, 50.000 invalidi, 30.000 orfani. Più di un milione di abitanti si erano allontanati dalle proprie case nelle zone più colpite dalla guerra, specialmente dalla capitale, per rifugiarsi in altre aree del Paese o emigrare all’estero. Nella capitale, non c’era casa, hotel, istituto, ospedale, scuola, industria, convento, chiesa, moschea che non avesse il segno delle cannonate o dei bombardamenti aerei israeliani e delle cannonate siriane. Nemmeno le Ambasciate erano state risparmiate. Un Ambasciatore francese e uno spagnolo erano stati uccisi, 17 diplomatici americani erano rimasti vittime di un attentato nella loro Ambasciata (18 aprile 1983); fra gli ostaggi detenuti dai fondamentalisti islamici c’erano ancora 9 americani, 3 britannici e un italiano, dopo che due francesi e un tedesco orientale erano stati liberati. Di molte centinaia di libanesi rapiti non si sapeva più nulla. La Forza Internazionale di Pace, composta da americani, britannici francesi e italiani, inviata nel 1982, si ritirava dopo il secondo invio nel 1984, per l’impossibilità di garantire la pace, lasciando sul terreno 241 marine, 88 paracadutisti francesi e 1 marò italiano. A queste vittime si aggiungevano quelle della Forza Interinale delle Nazioni Unite nel Libano (UNIFIL), mandate dall’ONU nel marzo del 1978 con il compito, quasi impossibile, di salvaguardare le frontiere di Israele dagli attacchi dei palestinesi e dei terroristi di matrice islamica.

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Un soldato di Aoun manifesta la sua disperazione dopo la distruzione di una caserma.

Questo era la fotografia impietosa e angosciante del Libano, al 31 dicembre del 1989, del Paese nel quale vivevo da più di due anni e nel quale dovevo ancora trascorrere tutto l’anno che stava per iniziare, che non faceva certamente sperare in un miglioramento della situazione.

(Continua)